Frine, la καλοκἀγαθία e don Pietro

Scritto il 14/11/2023
da Avv.MarioSabinoCozza

I protagonisti della vicenda sono Mnesarete e Iperide. Mnesarete (Μνησαρέτη, che fa ricordare la virtù), detta Frine (Φρύνη, rospo), era un’etera, nota per la sua bellezza.

 

Curiosamente, si nota subito come il nome e lo pseudonimo siano antifrastici in ordine, rispettivamente, alla professione e alla sua conclamata avvenenza.

 

Esule da Tespie, città beota sconfitta da Atene, meteca (id est straniera, e come tale soggetta ad imposte annuali per conservare la cittadinanza ateniese), Frine era donna disinvolta e divenuta molto agiata, amante e musa di Prassitele (Πραξιτέλης).

 

Pare, infatti, che siano sue le forme dell’Afrodite Cnidia (primo nudo femminile dell’arte greca, la cui copia romana si può ammirare nei Musei Vaticani), e, in ogni caso, molte statue dedicate a lei personalmente si rinvengono ancor’oggi.

 

Apparteneva alla fazione antimacedone, ed è quindi probabile che queste simpatie politiche della donna, il suo essere meteca, i facili costumi, la bellezza, la notorietà e la ricchezza siano stati le cause della denuncia e della accusa di σβεια (empietà).

 

Un crimine per cui era prevista la pena capitale e in cui venivano ricomprese molte e diverse condotte, tanto da essere strumentalmente ultilizzato per colpire un rivale o una figura divenuta scomoda nella polis (πόλις): non per nulla è la stessa imputazione per cui erano stati condotti a giudizio Alcibiade (Αλκιβιδης) e Socrate (Σωκράτης).

 

In quel tempo, Iperide (Υπερεδης 390 – 322 a.C.) era, con Demostene (Δημοσθένης), l’avvocato più famoso di Atene. Entrambi (come la nostra) antimacedoni (del secondo si ricordano le tre Filippiche, contro Filippo di Macedonia- Φίλιππος), pagarono con la vita la loro appartenenza politica (sopravvissuti anche ad Alessandro - λέξανδρος), furono condannati a morte dal reggente Antipatro (Αντπατρος): il primo fu fatto uccidere e il secondo si suicidò.

 

Invero, la definizione di avvocato è impropria, perché gli avvocati, come li intendiamo oggi, non esistevano: Iperide, come i suoi colleghi, era, infatti un λογογράϕος (logografo), uno scrittore di discorsi: redigeva le orazioni per i propri assistiti, che poi le avrebbero declamate nel processo.

Il logografo, quindi, doveva essere anche un fine psicologo, perché, come un sarto deve confezionare un vestito su misura per il suo cliente, egli doveva, ogni volta, calibrare i suoi discorsi sulla personalità dell’assistito: la ϑοποιία (ethopoeia) di cui era stato illustre maestro il concittadino e collega Lisia (Λυσίας, 445-380).

 

E a Iperide Frine affidò la sua difesa.

Nulla - se non qualche frammento, per tradizione indiretta - ci è giunto dell’orazione, che, però, ha avuto una vasta eco anche nei secoli a venire: Iperide, dicitur, per ribaltare le sorti del processo, strappò la tunica della donna, denudandole il seno; per Quintiliano (Institutio Oratoria, fine I sec. d.C.), invece, fu la stessa etera, sua sponte, a spogliarsi completamente.

Con un salto nel tempo, giungiamo alla seconda metà dell’800, con la commedia Frine di Riccardo di Castelvecchio (al secolo Giulio Pullè) e, poi, al 1883, anno in cui Edoardo Scarfoglio, scrittore e giornalista, nonché marito di Matilde Serao (con cui fondò, anche e non solo, Il Mattino), scrisse, poco più che ventenne, Il processo di Frine, riportando in auge il nome dell’etera con la novella in cui narra, ambientandola nella natia Abruzzo, la vicenda di Mariantonia, una donna accusata di aver avvelenato la suocera, eppur assolta, grazie all’abilità oratoria del suo avvocato, che punta la sua arringa sulla avvenenza della svagata assistita, presente in aula e abbigliata in maniera provocante.

 

Del resto, si sa, per i Greci, bello e buono erano un binomio indissolubile. Chi è bello non può aver un animo cattivo: καλοκγαθία (Kalokagathia).

Da questo racconto, nel 1952, il regista Alessandro Blasetti trasse un episodio (Il processo di Frine) del film Altri tempi.

 

L’episodio, stavolta ambientato a Napoli, riportava la scena ai tempi in cui veniva girato il film. Il difensore, lo smemorato don Pietro (molto più indulgente verso la donna dell’omonimo avvocato teatino di Scarfoglio), interpretato da Vittorio De Sica, in realtà è un semplice, annoiato e smemorato avvocato di paese, un paglietta, potremmo dire, che, nell’occasione, magari ringalluzzito dalla procace assistita, ha un sussulto d’orgoglio, sorprendendo gli astanti, già rassegnati (anche per essere stata a lui affidata la difesa) alla condanna della donna.

 

Anche nel film, come nel romanzo di Scarfoglio, l’imputata è una popolana, impersonata da Gina Lollobrigida, accusata di aver avvelenato la suocera.

Il lungometraggio è passato alla storia perché, nell’inaspettato impeto oratorio, in un’aula gremita di pubblico (soprattutto maschile) in delirio, don Pietro/De Sica, paragonandola a Frine ed evocando quel processo, chiede indulgenza per la sua assistita, definendola maggiorata fisica, neologismo che tanto successo avrà in seguito.

 

L’avvocato, infatti, con ardito paragone, chiede che la maggiorata fisica sia equiparata al minorato psichico, e dunque non possa essere condannata. La bellezza, dice, non può nascondere la malvagità e non può essere portata sul banco degli imputati.

 

Nel tripudio generale - pure delle donne, astutamente blandite dall’avvocato -, la sentenza è assolutamente favorevole all’imputata, con lo stesso Magistrato che scende dallo scranno a congratularsi con don Pietro.

 

Milano, 8 novembre 2020

Mario Sabino Cozza